domenica 29 novembre 2009

Quello che mi importa è grattarmi sotto le ascelle

Un diario di vita, un computer, le corse dei cavalli, un uomo che ha frantumato le barriere di tutti i tabù più sconvenienti del XX secolo; un nome solo: Bukowski.

Egli è schietto, realista, non si preoccupa di suscitare scandali . Analizza, filosofeggia meglio davanti a una bottiglia di vino e meglio ancora con la radio sintonizzata su una stazione che emette musica classica; se becchiamo Mahler allora sì che il mondo gli sorride.
Egli si diverte ad osservare la vita delle altre persone, passano accanto a lui come mosche fastidiose: tra di esse non un essere umano; ripudia la gente, meno contatti ha migliore sarà il suo pomeriggio trascorse a scommetere alle corse; ma paradossalmente è il primo ad affermare che la gente è il più grande spettacolo del mondo; e in più non si deve pagare il biglietto.

Blasfemi sono coloro che lo inquadrano come scrittore beat. Blasfemi sono coloro che si limitano alla volgarità del suo linguaggio sconcio per non riuscire a cogliere le perle di uomo che ne ha viste di tutti i colori. Laureato in materia di ospedali, galere e puttane. Ebbene sì chiamatelo dottore, per cortesia.
Diffida dei luoghi comuni, del sapere universale, delle statistiche "perché un uomo con la testa nel forno acceso e i piedi nel congelatore statisticamente ha una temperatura media". Giustamente.

Egli non parla di amore, di stelle che brillano nel cielo o di cuori infranti: stronzate. Egli parla della vita, del sesso, dell'alcol, della morte. Beato il vero genio, colui che sa esprimere "cose profonde in maniera semplice".

Al diavolo Tolstoj, non sa scrivere, "Guerra e pace" continua ad essere un pessimo libro. Heminghway è accettabile solo nelle sue prime opere. E Pound non lo capisco proprio. Lunga vita invece a Dostoevskij, Fante e Celine. E io aggiungo lunga vita a Chinaski, quel vecchio bastardo, vittima del sogno americano.

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